Stato di assedio

Tra problemi del Paese e problemi del Partito

di Francesco Nucara

L’Italia, in compagnia di molti paesi dell’Occidente, vive in uno stato di assedio.

Le forze politiche, tutte, invece di stringersi intorno ad un progetto condiviso per salvare il Paese, pensano ad approfittare della crisi in cui versano le condizioni economiche, sociali ed istituzionali. Ciascuno crede di trarre vantaggio dalle difficoltà dell’altro.

I “turchi” sono alle porte e noi litighiamo dentro la cittadella assediata, invece di pensare a come rompere l’assedio. Apprezziamo, e ci fa piacere sottolinearlo, la posizione di Casini. Abbiamo detto in questi giorni che sarebbe stato meglio che il presidente del Consiglio tacesse e dedicasse il proprio tempo a vigilare su quanto stava succedendo all’economia italiana: una crisi locale, per dirla con Alfano, che rischia di essere trascinata con ben maggiori guai, nella crisi globale dei Paesi occidentali.

Una volta che Berlusconi ha deciso di dare la sua versione in Parlamento, avrebbe dovuto essere più chiaro e più coraggioso. La crisi che stiamo vivendo ci ricorda in qualche misura i prodromi della crisi mondiale del 1929. Ci manca un Delano Roosevelt che nel suo discorso del 4 marzo 1933 disse: “Lasciatemi quindi affermare innanzitutto che credo fermamente che l’unica cosa di cui dobbiamo avere paura è la paura stessa: il terrore senza nome irrazionale e ingiustificato che paralizza tutti gli sforzi necessari per passare dalla ritirata all’attacco”.

Mi ritorna in mente la Caporetto economica di Ugo La Malfa.

Siamo di fatto in guerra, se non altro, con gli speculatori, ma in guerra è il Paese, non Berlusconi, e la chiamata alle armi non distingue le tessere di partito.

In una situazione del genere, chiedendo il ricorso alle elezioni o proponendo l’ennesima inutile mozione di sfiducia all’attuale governo, si rischia il paradosso di trovarsi dei sabotatori tra le file di quanti dovrebbero combattere per il Paese.

Si prenda atto, volenti o nolenti, che in questa fase, per motivi nobili e meno nobili, a Berlusconi non c’è alternativa.

Che ruolo può giocare il Partito Repubblicano in queste amare vicende italiane?

Per causa mia, indipendentemente, purtroppo, dalla mia volontà, dopo il Congresso il Pri ha avuto una pausa che qualcuno avrà potuto considerare forse strumentale, ma che così non era.

Appena è stato possibile si è convocata la Direzione Nazionale ed è stato tracciato un corposo programma di lavoro.

Se riuscissimo a realizzare almeno in parte quanto ci siamo proposto, potremmo dirci soddisfatti di avere iniziato un percorso lungo e difficile, pieno di insidie, ma che, ne sono certo, alla fine, come tutti i progetti che richiedono costanza e perseveranza, darà i suoi frutti.

In noi alberga l’amore per il Partito Repubblicano e per il repubblicanesimo. Non è un amore cieco ma il frutto di una razionalità secolare che ci ha spinto a dedicargli tutte le nostre energie, senza riserve.

Ricordo ancora quando il 10 settembre del 1999 entrai in una stanza della sede nazionale del PRI e dissi al mio interlocutore: “Tu sei il mio migliore amico, ma ricordati che ce n’è uno migliore di te: il Partito Repubblicano”. Ero di quella idea e rimango di quella idea. Esistono ancora tra gli italiani degli “spiriti vivaci” e noi repubblicani, con superba umiltà (!) ci consideriamo tra questi.

Al Paese possiamo offrire il contributo di una minoranza quasi disinteressata ai problemi dei bottegai della politica: si tratti della P4 o dell’area Falck o delle nomine negli enti pubblici. Veniamo da una scuola in cui l’austerità e il vivere senza orpelli e fronzoli mondani, salvo qualche rara eccezione, ci appartiene per intero come se facesse parte del DNA repubblicano.

Mi si potrebbe dire: queste sono chiacchiere per riempire una pagina di giornale.

Dico quello che penso nella maniera in cui lo so dire, senza preoccuparmi del giudizio degli altri, perché le mie convinzioni sono sostenute da una lunga storia che ha attraversato tutta la mia vita e dal conforto dei tanti che supportano queste mie convinzioni.

Il mio migliore amico è il Partito? E allora io non voglio, ripeto non voglio, tradire la sua fiducia. Come dice Schopenhauer: “Chi tradisce la fiducia altrui la perde per sempre qualunque cosa faccia e chiunque egli sia: e non tarderà a raccogliere i frutti amari di quella perdita”.

C’è chi consiglia a chi riceve uno schiaffo di porgere l’altra guancia. Le guance le ho finite, ma se tutti insieme siamo d’accordo che, finite le guance, ci si può dare una stretta di mano, senza inutili ipocrisie ma con l’intento unico e solo di aiutare il Partito a svolgere il ruolo che l’assise congressuale gli ha assegnato, io sono pronto, pur sapendo che le leggi sono fatte per essere rispettate anche dai “villani”.

La “Voce” chiuderà per un breve periodo. A tutti i lettori e ai repubblicani buone vacanze.